Solo il 10% degli italiani adulti svolge un’attività sportiva regolare, eppure "impone" ai propri figli una
pratica quasi quotidiana, tra scuola e corsi pomeridiani. Lo sport agonistico nelle prime fasi dell’età
evolutiva (dai 7 ai 18 anni) diventa un fenomeno di massa, con quali rischi? Imporre modelli di
prestazioni difficilmente raggiungibili espone i più giovani a delusioni, mortificazioni, umiliazioni, e a
conseguenti disturbi depressivi e somatizzazioni. Valutiamo costi e benefici di un tale impegno.
Dalla metà degli anni ‘90 la pratica di uno sport è stata inserita tra le attività quotidiana dei
bambini, cui si offre oggi l’opportunità di avvicinarsi a molte discipline sportive diverse, dalle più
popolari calcio, basket, pallavolo, nuoto, ad altre meno praticate come scherma, rugby,
pattinaggio, arti marziali. Conseguentemente è cresciuto anche l'interesse verso l'agonismo di
massa, cui ci si avvicina ormai già nelle prime fasi dell’età evolutiva (dai 7 ai 18 anni). Ma gli
studi degli ultimi decenni hanno acclarato che bambini e adolescenti non sono “piccoli adulti”, ma
individui con peculiari caratteristiche fisiche e psicologiche di cui è indispensabile tener conto. A
oggi solo il 10% della popolazione italiana adulta svolge un’attività sportiva regolare, mentre
bambini e ragazzi lo sport lo praticano, tra scuola e associazioni, pressoché quotidianamente.
Di solito sono i genitori ad avviare i figli allo sport, con un approccio molto diverso: alcuni lo
propongono come passatempo sano e educativo, altri si mettono nelle mani degli allenatori, altri
ancora decidono di impegnarsi assieme a loro nella pratica dell'attività. Se per ogni fascia d'età
l'attività fisica deve essere proporzionata a quello che la struttura e la salute fisica permettono, in
età evolutiva bisogna considerare anche la delicatezza della fase di sviluppo psicologico e fisico,
poiché la distinzione tra mente e corpo non è così netta come nell'adulto, perciò ogni azione
compiuta sul corpo ha anche un valore psichico. Inoltre, un organismo in rapido sviluppo può
essere danneggiato più facilmente.
Per questo, nella pratica di qualsiasi sport, è importante che i programmi rispettino le
caratteristiche dei piccoli atleti e che diano importanza al miglioramento di tutte le loro qualità
fisiche e psicologiche, valorizzandole. Naturalmente va dato spazio a un apprendimento “tecnico”,
ma che implementi alcune abilità: la destrezza, la motricità fine, la precisione e l'attenzione
nell'esecuzione del gesto. Il lavoro deve essere necessariamente graduale e progressivo, agendo
dolcemente sulla resistenza e sulla forza muscolare ma accompagnando l'individuo in uno
sviluppo armonioso della sua personalità. Per questo la durata dell'attività e l'intensità vanno
commisurate ai benefici e agli obiettivi che ci si prefiggono e tarati sulle variabili individuali, base di
partenza su cui impostare qualsiasi attività motoria in età evolutiva, in una dimensione in cui il
“gioco” sia l'elemento centrale di trascinamento e coinvolgimento dei piccoli sportivi.
È infatti impossibile pensare un'attività sportiva che prescinda dal gioco. Bisognerebbe anzi
parlare sempre di “gioco sportivo” durante il quale i bambini lavorano divertendosi, vengono
stimolati in proporzione alla loro età attraverso mini-competizioni, orientando l'aggressività
attraverso le regole. Le motivazioni per cui i ragazzi continuano a impegnarsi in un'attività sportiva
sono legate alla socializzazione in un ambiente accogliente e familiare, non alla competizione
agonistica in sé. Inoltre, non tutti i ragazzi possono o devono diventare campioni, ma tutti devono
conoscere i benefici dello sport e farne un bagaglio culturale capace di arricchirli e aiutarli nello
studio e nell'apprendimento.
Negli ultimi venti anni l'aspetto agonistico dello sport è diventato sempre più importante in
tutte le discipline e proposto sempre più precocemente, coinvolgendo bambini e preadolescenti.
La responsabilità di questo fenomeno è da attribuire sia alle società sportive, i cui proventi e
sovvenzioni sono condizionati dal successo dei loro atleti, sia alle famiglie, che hanno sempre
maggiori aspettative di successo e fama per i loro figli. D'altro canto, il successo nello sport
dipende da un insieme di fattori eterogenei: caratteristiche genetiche, psicologiche, ambientali,
familiari e sociali di cui troppo spesso non viene tenuto conto. Proponendo e imponendo ai ragazzi
dei modelli non raggiungibili li si espone a delusione, mortificazioni, umiliazioni, che portano con
sé insicurezza e non di rado disturbi depressivi e ansiosi, che talvolta vengono somatizzati. È
frequente infatti che i ragazzi abbandonino l'attività sportiva agonistica nonostante i buoni risultati
significativi raggiunti: sul perché si interrogano i familiari, preoccupati del "fallimento" dei loro
ragazzi, e le società sportive, interessate a evitare i “drop out”, gli abbandoni.
Gli abbandoni sono quasi sempre determinati da una perdita di piacere nello svolgere
l'attività sportiva, poiché privata della componente ludica o segnata da esperienze negative
(eccessiva pressione del trainer o aspettative della famiglia con svalutazione degli insuccessi e
mancata valorizzazione dei successi, bullismo, incidenti, violenze, etc.). Questo tipo di esperienze
traumatiche protratte nel tempo costituisce un grave problema per i piccoli e giovani atleti, perché
compromette la loro salute psicofisica presente e la loro vita futura.
“Lo sport agonistico è sinonimo di competizione sportiva” spiega Antonio Fiore, medico sportivo
e Federale della Scherma, docente alla scuola di specializzazione di Medicina dello Sport
all'Università La Sapienza di Roma. "L'attività agonistica comporta un grosso impegno, fatto di
allenamenti intensi e competitività elevata, che può creare seri problemi nei bambini e negli
adolescenti. Il soggetto in età evolutiva va valutato in base a una serie di criteri specifici, e il
medico sportivo deve verificare se esistano controindicazioni e indirizzarlo verso un'attività,
nonché verificare che sia quella a lui più congeniale e idonea” afferma Fiore. E continua: "Il
medico dello sport è un esperto dell’attività sportiva, non un medico-legale, il medico che rilascia
certificati d’idoneità è un professionista che confeziona il programma di esercizio di sport, valuta e
decide se il bambino possa praticarlo e a che livello. Tra i bambini c'è un'estrema variabilità: ad
esempio bambini di 11 anni possono essere prepuberi o già chiaramente entrati nella pubertà, e
quindi avere una fisicità e delle possibilità già quasi pari a quelle di un adulto”.
La pratica dello sport agonistico inevitabilmente prevede che bambini e ragazzi facciano
delle rinunce, siano pronti al massimo impegno e alle richieste dei preparatori atletici, sviluppino
un forte senso del dovere e trascorrano molte ore della loro giornata ad allenarsi, molto spesso
trascurando attività normali per la propria età. Quando queste attività sono caratterizzate da una
specializzazione precoce, richieste tecniche pressanti, pressioni psicologiche quotidiane costanti,
imposizione di schemi fissi, condanna degli errori e divieto esplicito o implicito di sperimentare ed
esprimersi creativamente al di fuori delle richieste, questo può rendere lo sport agonistico in età
evolutiva fonte di seri problemi psicologici, insicurezze e nevrosi anziché strumento di crescita e
socializzazione. "L'allenamento per definizione è uno stimolo stressante, ma necessario per far
progredire l’atleta", precisa Fiore. "Però non può essere applicato ai bambini sia per questioni
fisiche che ormonali. D’altro canto, rispetto agli adolescenti, i bambini possiedono una ‘protezione
naturale’: appena avvertono un disagio si fermano. L'agonismo fa male se è concepito come un
dovere, se non educa. Lo sport deve educare ai valori dell'atletismo, al fair play, al rispetto
dell'altro e alla sconfitta, perché nello sport si perde quasi sempre”.
I bambini non hanno la capacità di dare alla sconfitta o alla vittoria il giusto peso, si
identificano con il risultato: se perdono, perdono autostima, se vincono, possono sopravvalutare le
proprie capacità. Non sanno comprendere che la sconfitta o la vittoria sono semplicemente la
conseguenza di un esercizio o una gara eseguita male, l'associano al proprio valore. L'agonismo
comporta inevitabilmente la ricerca della vittoria, il risultato dopo tanto impegno che confermi che
gli sforzi, la fatica, le rinunce. Un eccessivo carico agonistico e di allenamento, la mancanza di
sufficienti rinforzi rispetto all'impegno da parte delle figure di riferimento (genitori e allenatore),
favoriscono l’insorgere di disturbi psicologici. I più frequenti sono i disturbi d’ansia e del tono
dell’umore (depressione, irritabilità), i disturbi del sonno, la perdita d’interesse e di piacere per
tutte le attività (anedonia), stanchezza fisica (anergia). Per questo è importante che degli
specialisti psicoanalisti possano fornire ai genitori e agli allenatori, attraverso dei corsi di
informazione e formazione, alcuni strumenti che li aiutino a gestire la psicologia dei bambini e
degli adolescenti. “Gli strumenti legislativi ci sarebbero” precisa Fiore. “ La federazione medico-sportiva
dovrebbe dare degli strumenti professionali per gestire i bambini in senso educativo e
formativo. Oggi c'è una grande preoccupazione sull'antidoping ma poi non vengono fatti corsi di
psicologia dello sport agli allenatori”.
Se ben gestito, lo sport agonistico può avere dei risvolti positivi in termini di impegno,
disciplina, amore per la competizione, desiderio di vincere con la propria squadra. Lo sport
agonistico, d’altro canto, è utile e necessario solo per un’esigua minoranza di persone, con
caratteristiche personali, familiari, psicologiche, fisici e sociali particolari.
Ci sono generazioni di sportivi ad alti livelli sia in sport individuali che di squadra - per citarne
alcuni Cagnotto (tuffi), Nadal (tennis), Montano (scherma), Meneghin (basket), Moser (ciclismo),
Mazzola (calcio), Fondelli (pallanuoto) - per i quali tradizioni familiari, genetica e capacità personali
si intrecciano indissolubilmente, ma che non possono costituire un termine di paragone.
La “Carta dei Diritti del Bambino nello Sport” dell’UNESCO dichiara che il bambino ha diritto di
divertirsi e a giocare come un bambino e ha diritto non essere un campione! L'agonismo non è
vincere la partita, è praticare la partita, perché lo sport agonistico non faccia male è necessario
migliorare la cultura dello sport a tutti i livelli, nelle famiglie, nei professionisti dello sport, nei mezzi
di comunicazione e negli stessi piccoli atleti.
Adelia Lucattini
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Articolo di Adelia Lucattini Psichiatra psicoterapeuta e Psicoanalista pubblicato
su D-Repubblica.it -Benessere
SIPSIeS.ORG
Articolo di Adelia Lucattini Psichiatra psicoterapeuta e Psicoanalista pubblicato
su D-Repubblica.it -Benessere
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